Milano – PGreco Edizioni – 2015



Qualche tempo dopo il mio arresto, avvenuto il 3 ottobre del 1967, un agente di custodia mi passò dallo spioncino della sezione di isolamento di San Vittore una penna e un foglio di carta: “Può scrivere alla sua famiglia, se vuole…”.
Dopo un’ora tornò a ritirare la penna e il foglio: bianco. Non disse una parola. Non dissi una parola.
Poi, non mi ci volle troppo tempo per capire che il foglio di carta sarebbe stato uno dei pochi strumenti che mi avrebbe consentito di non farmi seppellire definitivamente nel buco nero dell’ergastolo.
Lo capii talmente bene che, dopo 4-5 anni, davo alle stampe il mio libro L’evasione Impossibile, che avrebbe segnato per sempre la mia esistenza di detenuto, e anche quella di molti altri giovani.
Il “mio” carcere, quello trovato alla fine degli anni ’60, era semplicemente inaccettabile. Un carcere fortemente autoritario dove, accanto ai mille doveri che segnavano la mia giornata, non c’era un solo diritto. La ribellione a quel carcere fu immediata e totale. E sulla cartella biografica i carcerieri stampigliarono per tutti i ventun anni della detenzione: sobillatore:
In realtà, feci parte di una generazione di detenuti che furono dei rivoluzionari e che, partendo dal nulla, conquistarono attraverso lotte durissime tutto il possibile. Lotte inimmaginabili, che costarono celle punitive, lunghe anche anni, processi, linciaggi, morti.
Aiutati dal momento storico particolare, quello che doveva poi passare alla storia come il “movimento della contestazione”, quando operai e studenti operarono una saldatura sul terreno delle lotte, diventò il contenitore delle avanguardie più generose di quel movimento. Infatti fuori, ad ogni manifestazione, seguivano scontri durissimi e furono centinaia i giovani arrestati che, sia pure per brevi periodi, vissero a stretto contatto con i detenuti nelle prigioni.
I primi approcci con gli arrestati politici puntarono sulla solidarietà. I comuni dividevano con loro il poco che avevano: sigarette, cibi, indumenti.
Una solidarietà che servì a conoscerci, a stabilire tra i due gruppi un’istintiva simpatia. Assai presto, si passò ad un rapporto più produttivo, un vero e proprio rapporto politico perché, se fuori si contestava soprattutto l’autoritarismo presente in ogni piega dell’organizzazione sociale, il carcere, per sua natura, di questo autoritarismo era il punto più alto.
Nelle fasi precedenti, alla prigione si “resisteva” individualmente. Chi lottava lo faceva da solo e, alla lunga, ne usciva a pezzi nel morale e spesso nel fisico. A quei tempi non si andava per il sottile. La resistenza costava mesi di celle punitive: a pane e acqua, letteralmente, ed era alto il numero dei detenuti che, dopo un trattamento simile, diventavano tubercolotici.
Fu quello dunque il periodo che ritengo sia stata la stagione più felice, più creativa di tutta la storia carceraria.
E questo anche sul piano culturale.

da Liberi dal silenzio – Milano – PGreco Edizioni – 2015 – pag. 48-49