“Sono nato a Castellaneta, nel tarantino, il 15 dicembre 1938. Anni tristi, anni di fame per il Sud: il fascismo, la guerra d’Africa, la guerra di Spagna non avevano risolto nulla, avevano succhiato solo uomini. E la guerra mondiale era già nell’aria. Castellaneta è nell’entroterra, a una trentina di chilometri da Taranto. Uno di quei paesoni agricoli, tipici del Sud, né villaggio né città, poverissimi, ricchi solo di bocche da sfamare. Case vecchie, una sola strada decente, in mezzo al paese, qualche villetta dei notabili: le sanguisughe. In campagna i miei nonni lavoravano ancora con l’aratro a braccia. L’unica industria era l’emigrazione. Il fascismo provò a sostituirla con la guerra: a casa invece delle rimesse degli emigranti, cominciarono ad arrivare poche lire sottratte alla “deca”. Il paese era noto nel mondo per una sola gloria: Rodolfo Valentino. Ma i dirigenti locali non seppero sfruttare neppure quella, puntando sulle americane fanatiche dell’amante latino.

Mio padre era figlio di contadini. I nonni conducevano a mezzadria una cascina a Lizzano, un altro paesone come Castellaneta. Di tanto in tanto anche mio padre andava a lavorare nella cascina dei vecchi.

Ho ricordi molto vaghi di quel tempo, almeno fino al giorno in cui mio padre se ne andò con una vicina di casa anche lei sposata. Tra tutti e due abbandonarono una decina di figli. Com’è costume dalle mie parti, queste cose toccano il limite della tragedia. Il disonore ricade su tutta la famiglia, figli compresi. E naturalmente è la parte più debole, la donna e i figli, che ne porta il peso maggiore. Per me fu un duro colpo. Mio padre era estremamente severo, tra lui e noi non ci fu mai confidenza, ma distacco. Nel paese era uno dei pochi che portava la camicia bianca, si dava un contegno, ci teneva a dimostrare che era un educatore rigido. Quando se ne andò non perse il mio affetto, che non aveva potuto nascere, ma il mio rispetto; tutta la sua austerità era naufragata miseramente”.*

Sante Notarnicola trascorre la prima infanzia fra miseria ed emarginazione sociale. Abbandonato dal padre, è costretto a subire lo sfascio della propria famiglia in un Istituto per l’Infanzia Abbandonata, dal quale uscirà a 13 anni per raggiungere la madre, nel frattempo emigrata a Torino. Nella capitale industriale del Nord va a vivere alla “Barriera di Milano”, nota per essere un quartiere nevralgico per tutto il mondo operaio e sede di una delle più importanti e storiche sezioni del PCI della città di Torino; la famosa sezione “Antonio Banfo” che custodiva una minuta con appunti di una riunione a cui parteciparono Gramsci, Togliatti, Tasca ed altri e questo cimelio era l’orgoglio di tutti i suoi militanti insieme agli innumerevoli racconti di chi fu testimone di eventi storici importanti. Notarnicola inizia la sua militanza politica sotto l’influenza dello zio ex partigiano; frequenta gruppi di operai e di ex partigiani e con loro milita prima nella FGCI, poi nel PCI: sono gli anni del dopoguerra, anni in cui negli ambienti della sinistra italiana si continuano a nutrire speranze rivoluzionarie e in modo particolare il sogno di continuare la lotta condotta durante la Resistenza, per portare a termine quella trasformazione che si era bruscamente interrotta con la fine della seconda guerra mondiale; sono gli anni in cui, di fronte ai sogni di una generazione, si delinea la svolta istituzionale del Partito Comunista che prende sempre più le distanze dalle idee rivoluzionarie. È fra le quinte di questo complesso scenario che matura l’esperienza politica e umana di Notarnicola ed è da questa esperienza che bisogna partire per capire il senso della sua poesia, una poesia nutrita di storia, di umanità, di sentimenti, più che di parole. È il ’59 quando inizia con alcuni compagni una serie di espropri, organizzando rapine in banche e gioiellerie per raccogliere denaro a favore dei movimenti di liberazione nei paesi coloniali; è durante una di queste rapine (la sanguinosa rapina di Largo Zandonai a Milano) che nel ’67 viene arrestato insieme a Piero Cavallero e altri due compagni e condannato all’ergastolo. In carcere inizia a studiare, a scrivere e soprattutto a lottare per quanto avviene in quegli anni nelle prigioni. Da quel momento (il ’68 e le BR non erano ancora arrivati) si affanneranno ad attribuirgli etichette sempre diverse, da sobillatore a sovversivo, da nappista a brigatista, da irrecuperabile a irriducibile. Trascorre a Bologna gli ultimi anni della sua vita. Dal 1995, in regime di semilibertà, gestisce il pub Mutenye dedicandosi ai più giovani e a numerosi progetti sociali, solidali, culturali. Dal 21 gennaio 2000 è libero.

Ci lascia a 82 anni il 22 marzo 2021 dopo aver vinto la sua ultima battaglia con il Covid.

Le sue poesie e i suoi scritti in prosa sono stati tradotti in Svizzera, Germania, Grecia, Francia, USA.

Biografia tratta da Versi elementari, Edizioni LYRIKS, 2020

*da L’evasione impossibile, 1972