Padova – Calusca Editrice – 1993



IV raggio cella 71
S. Vittore 5 settembre 1970

Nel cortile
a S. Vittore
un albero
di pietra.

Nel “centro” 
a S. Vittore 
un Cristo 
di pietra. 

Nelle celle
a S. Vittore 
tre fiori 
di pietra. 

Pensieri di pietra 
a S. Vittore. 


La tua condizione personale oggi è modificata: vorremmo partire da un aggiornamento della situazione, per proseguire con la ricostruzione della tua vicenda.

Prima di entrare nello specifico delle questioni vorrei rivolgere un pensiero a tutti i detenuti, indistintamente, politici e comuni, salutarli tutti con molta emozione perché, anche se sono in semilibertà da 3 anni e 5 mesi, non dimentico la parte più importante della mia vita, in cui ho vissuto cose che mi hanno segnalo profondamente e che mi porterò sempre dentro… Quindi un abbraccio a tutti. 
A grandi linee: sono stato arrestato nel 1967, il 3 ottobre, e sono uscito il 25 luglio del 1988, in regime di semilibertà. Ho scontato 20 anni e 10 mesi, in quasi tutti i carceri italiani, …me ne mancano pochissimi! 
Posso distinguere due fasi della mia detenzione: i primi 10 anni, che vanno appunto dal ’67 al ’77, passati nelle carceri normali, ed i successivi, passati negli speciali. La prima fase è stata senz’altro la più valida dal punto di vista della presa di coscienza, della militanza, se vuoi, in quanto in quegli anni lì era nato il movimento dei dannali della terra; la seconda fase è stata più legata alle organizzazioni. 
Quando sono entrato in prigione la composizione dei detenuti, sia pure lentamente, andava mutando: da rurale cominciava ad assumere connotati più avanzati, più vicini alla trasformazione industriale del paese. 
Le grandi, epiche immigrazioni degli anni ’50, dal Sud verso il triangolo industriale, contribuirono a questo mutamento, specialmente, parlo, di carceri particolari, quelli metropolitani. I nuovi soggetti detenuti entravano nel circuito carcerario con delle esperienze lavorative diverse dal passato e, anche se erano ai margini dei processi produttivi, avevano un atteggiamento differente, non più passivo. Cambia quindi l’atteggiamento, d’altra parte non cambia il carcere. 
L’impatto con il carcere era molto violento, molto forte: era una struttura medioevale, sia nella conduzione, fortemente autoritaria, sia negli edifici, che erano vecchi castelli, conventi, ecc.; cominciava la non accettazione di quel lino di detenzione e succedeva, tutto sommato, qualcosa di analogo anche fuori; infatti i primi fermenti esterni cominciarono immediatamente a riflettersi all’interno. 
Arrestato, fui mandato a San Vittore poiché la nostra storia, quella precedente della banda, si conclude a Milano, durante una rapina… ma questa è un’altra storia. Da un certo punto di vista fu una fortuna in quanto, poco dopo, cominciarono proprio a San Vittore le prime manifestazioni collettive. 
In precedenza le lotte nel carcere c’erano, ma erano sempre e comunque di carattere individuale, sempre difensive: chiunque, per risolvere un problema personale, aveva pochissime possibilità per farlo se non quella di attirare l’attenzione, per esempio, autolesionandosi o salendo sul tetto. Non esisteva nessuna forma per affrontare collettivamente i problemi comuni. 
Nel ’68 cominciarono i primi sit-in, le prime fermate all’aria, che ebbero un impatto veramente grosso, prima di tutto interno. Ricordo che alla prima fermata all’aria gli agenti di custodia, alcuni, vennero da me, bianchi come cenci, chiedendoci se ci rendevamo conto di quello che stavamo facendo, che quello era ammutinamento! Me ne resi conto meglio successivamente. Ponendo collettivamente i nostri problemi avevamo rotto uno schema che andava avanti da sempre. 


Quali sono le condizioni di detenzione, quando entri tu?

è un po’ difficile oggi raccontare… Il carcere che ho conosciuto io all’epoca era inenarrabile, assolutamente, gli esempi possono solo parzialmente illustrarlo. Stavamo chiusi 21-22 ore al giorno (in certe carceri succede ancora oggi), e nella cella non avevamo acqua né gabinetto, c’era un vaso per i nostri bisogni, il famoso bugliolo, che restava lì, e ci convivevi dentro per 24 ore. Non si poteva acquistare nulla alla spesa, se non piccole cose banali, non si poteva cucinare e quindi si doveva mangiare la casanza, la sbobba, che si può immaginare cosa fosse… Avevamo la carne due volte a settimana, il giovedì e la domenica, altrimenti un piatto di minestra e una pagnotta, basta la sera un formaggino, un pezzo di mortadella di infimo ordine, e non c’era altro. Me la ricordo ancora la fame, i morsi della fame; era avvilente, ma c’era la fame. Ovviamente c’erano altre categorie di detenuti, i boss, che si arrangiavano: generalmente venivano ricoverati all’infermeria che era il posto per i privilegiati, non per i malati. 
Si potevano scrivere due lettere a settimana, in giorni prestabiliti: venivano, dandoti carta e penna, e, finito di scrivere, si doveva restituire la penna; per questo eravamo sempre a caccia del pezzo di matita; c’era chi si industriava, faceva piccoli traffici. I giornali che passavano erano solo quelli sportivi e un quotidiano locale, a Milano il Corriere della Sera. Però venivano censurate tutte le parti inerenti al carcere; cioè venivano tagliati con le forbici gli articoli relativi, e in questo modo tagliavano anche gli articoli sul retro. 
Le celle di punizione funzionavano a pieno ritmo; personalmente mi ci sono fatto i primi otto mesi, filati, e li, a parte le botte e altre cose del genere, che fanno parte della normalità -io non fui picchiato, ma altri sì-, si aggravava la situazione anche sul piano alimentare, perché spettavano solo un piatto di minestra e una pagnotta al giorno e, se c’era una guardia particolarmente carogna, ti faceva saltare anche il piatto di minestra. Per questo c’erano diverse malattie, tra cui la tbc. Inoltre la gran parte dei detenuti non aveva famiglie con grosse disponibilità: c’erano ancora i poveri fuori, e i più poveri fra loro finivano dentro, quindi ci si doveva arrangiare, senza contare su aiuti esterni. 
Al sud, era diverso, me ne sono reso conto quando ho girato per le carceri meridionali, poiché il rapporto tra il detenuto e l’esterno era più forte; la famiglia magari si dissanguava, ma non gli faceva mancare nulla. Dal punto di vista della solidarietà, non dell’aggregazione o delle lotte, mi sono sempre trovato benissimo con i meridionali: al nord la famiglia di un carcerato viene marchiata, emarginata, generalmente cerca di nascondere a tutti e vive da sola questo tipo di vicende. Mentre al sud, forse perché c’è sempre stata una famigliarità maggiore con le galere, la cosa è vissuta con più partecipazione dall’esterno. 
Sono stato anche nel carcere di Volterra, una bellissima rocca medioevale adibita ancora oggi a carcere, ed ho passato 4 mesi di fila nelle stesse segrete in cui i Medici intorno al ‘500 mettevano i ribelli dell’epoca. Ancora oggi, quando visito dei castelli, lo faccio sempre malvolentieri, perché la gente è solo incuriosita da questi posti, non pensa che ci sono persone che ci scontano anni, tuttora, in luoghi analoghi. 
In quel periodo cominciò quella che io ritengo la stagione più felice, più produttiva, più creativa di tutta la storia carceraria: una fase che ha prodotto non solo dei compagni, dei militanti, bravissimi, ma anche sul piano culturale fu un periodo d’oro. Sono stati scritti libri, innumerevoli documenti. 
Cominciò la lotta per cambiare il carcere, una lotta collettiva e non disperata come prima. 


Tu sei molto conosciuto fra i compagni, non solo perché hai scritto dei libri, ma come un’avanguardia nel movimento dei detenuti. Avevi avuto qualche esperienza politica prima dell’arresto? 

Mi trovai nei posti giusti all’inizio di questa storia, con la fortuna di aver già avuto un minimo di esperienza politica; anche il mio compagno con cui ero stato arrestato, Cavallero, era stato un funzionario del PCI e aveva una grossa preparazione teorica e politica… la nostra è una storia tutta particolare. 
Inevitabilmente finimmo per essere la prima avanguardia di questo movimento che nasceva: la fermata all’aria non bastava più, bisognava scrivere il volantino, prendere i rapporti con l’esterno, comunicare la lotta. In realtà i giornali borghesi ci aiutarono molto in questo, perché le prime rivolte,… anzi, le rivolte vengono dopo le prime fermate all’aria, i primi sintomi di ciò che sarebbe accaduto, suscitarono grande stupore. Sulla fermata a San Vittore ci furono titoloni, e noi sfruttammo il nostro processo (n.d.r. quello alla “banda Cavallero” dell’estate 1968) …senza una difesa adeguata, senza conoscere un solo rigo degli atti e con 75 capi d’imputazione, molti dei quali comportavano la massima condanna, assieme ai miei compagni ero trascinato in corte d’assise a Milano in un clima di linciaggio creato dai giornali borghesi, per celebrare uno dei processi più grotteschi che si conoscano. Dal giorno dell’arresto erano passati solo 8 mesi. Otto mesi per istruire 23 rapine, 5 omicidi, tentati omicidi, decine di lesioni, ecc., tutto questo in otto mesi. (…)
Il processo volgeva ormai al termine e in aula un giornalista mi allungò La Stampa; seppi così che nel carcere torinese i detenuti erano scesi in agitazione e si erano ammutinati; era cominciata la lunga battaglia per la riforma dei codici. A San Vittore i giornali erano rigorosamente censurati, ma riuscii a portare clandestinamente il pezzo che mi interessava e lo feci girare nelle celle. Nel cortile subito i ragazzi a gruppi discutevano animatamente, intanto “radio bugliolo” portò la notizia negli altri raggi. Prendemmo accordi per ammutinarci il sabato. Andò così: il III, il V e il I raggio non rientrarono dall’aria. Cominciammo a scandire la parola d’ordine: “Basta coi codici fascisti!” I detenuti ammutinati erano più di 1000; coi mattoni divelti dal selciato battevamo ritmicamente contro le inferriate che delimitavano lo spazio per passeggiare. Dagli altri raggi rispondevano. Poi chiedemmo a gran voce la presenza del procuratore della repubblica. Dopo un’oretta entrò in cortile il dottor Corbo, il direttore. Si fece un immediato silenzio carico di tensione. Disse di scegliere uno che ci rappresentasse, il procuratore sarebbe arrivato. Tutti guardarono verso di me. Corbo mi chiese. ‘Lei Notarnicola è d’accordo?’ ‘Si, se tutti decidono in questo senso.’ Tutti gridarono: ‘Sì!’ Corbo andò via raccomandandoci la calma. Poi qualcuno gridò: ‘Discorso!’. A questo proprio non ero preparato, non conoscevo bene il problema per cui mi battevo, ma avevo notato che la maggioranza ne sapeva meno di me; un compagno mi disse di non preoccuparmi perché gli altri raggi avrebbero scelto certamente gente pratica dei problemi carcerari, quindi noi ci saremmo limitati ad appoggiare le richieste. Ma ora mi chiedevano un “discorso”. Mi fecero salire su una panchina e pressappoco dissi: ‘La lotta che stiamo affrontando è giusta, e l’entusiasmo con cui la conduciamo dimostra la nostra compattezza, questo le autorità non possono sottovalutarlo. Abbiamo bisogno che tutti sappiano in quali condizioni ci troviamo. Comunque finisca questa giornata, dobbiamo ricordarci di rimanere sempre uniti contro di “loro”. Dobbiamo imparare dagli operai: quando la classe operaia era disunita, disorganizzata, era facile preda del padrone. Gli operai capirono l’errore e si organizzarono in partiti e in sindacati e cosi uniti poterono rivendicare i loro diritti. Noi oggi stiamo facendo la stessa cosa, quindi l’insegnamento che ne deriva è quello di essere uniti e continuare a lottare’. Conclusi: ‘Dato che non sono bravo a fare i discorsi propongo di cantare tutti insieme le canzoni degli operai; al di là della cinta mi dicono che c’è molta gente. Ebbene, ci saranno anche degli operai a sentirci, cantiamo tutti insieme “Bandiera rossa”…la sapete?’ ‘Si…’ Questo discorso mi costò due anni nell’infame carcere di Volterra.) 
Ormai diventava scuro quando arriva il procuratore; quando mi recai a parlamentare mi avvertirono che gli altri raggi avevano rifiutato il colloquio. Immediatamente entrarono nel cortile un centinaio di agenti carcerari e di pubblica sicurezza; tre o quattro detenuti ruffiani crearono lo scompiglio e il panico, portandosi appresso gran parte della massa. l’u una mossa imprevista, ne avremmo tenuto conto; infatti il giorno dopo costoro furono duramente puniti. Continuammo a trattare -ormai eravamo ridotti a una ventina di persone-troppo pochi per opporre resistenza. Volò qualche cazzotto, ma subito smettemmo rientrando in cella tra due ali di agenti. Non fumino toccati. Era sabato sera, il lunedì mattina la corte si ritirava in camera di consiglio per decidere la sentenza. Ma la domenica si scatenò la caccia a quei detenuti che avevano tradito, furono in molti ad andare in infermeria. Intanto il quinto raggio aveva resistito, c’era stata battaglia grossa e fu per questo che le presero forte gli infami che avevano rovinato il finale. A mezzogiorno della domenica venne una schiera di guardie e mi portarono nuovamente alle celle di punizione. A San Vittore la mia vita in comune con gli altri detenuti era durata poco più di un mese. 
Il lunedì mattina, in tribunale, c’era animazione tra i giornalisti. Mi prende-vano di mira, non sapevo che, mentre la corte si accingeva a giudicarmi, avevano addossato a [ne ed ad altri la responsabilità della rivolta. Dopo la sentenza, restai alle celle ancora qualche giorno; una sera mi prelevarono per portarmi alla nuova destinazione: Volterra, carcere di punizione e di rigore. Più tardi mi raggiunse una citazione della Procura di Milano, ero imputato di “danneggiamento, incendio, lesioni, resistenza ed altro”. Ma sarebbe poi arrivata l’amnistia e di questo processo non si sarebbe più parlato. 
Partimmo tutti e tre assieme, Piero era diretto a Porto Azzurro, Adriano a Pianosa e io a Volterra. Presi posto con Cavaliere su una macchina di grossa cilindrata, Rovoletto ci seguiva su un’altra, quattro “gazzelle”di scorta. Partimmo alle 23 da San Vittore e viaggiammo tutta la notte. Era una bella notte d’estate e non mi stancavo mai di guardare le stelle, chissà quando le avrei riviste.. . che giusto presentimento. .. Intanto con Piero commentavamo il processo; non ero contento della mia posizione rinunciataria, n6 del suo atteggiamento di contestazione, ma verso la fine del processo lo avevo appoggiato. La vecchia rabbia era venuta fuori. Ricordo, qualche giorno prima mi aveva chiesto: ‘Come reagiremo quando ci daranno l’ergastolo?’ ‘Mah!’ avevo risposto. ‘Cantiamogli una bella canzone, almeno li faremo andare fuori dai gangheri, sai, una di quelle canzoni che cantavamo alle manifestazioni della FGCI, Figli dell’officina, forse questa va bene’. E così fu. Ma una canzone non spiega nulla, e glielo dissi. ‘Avremmo dovuto presentarci con altri argomenti’. Piero ironizzò: ‘Si, con il mitra in mano!’ Non raccolsi, gli risposi solo: ‘Beh, il mitra lo abbiamo avuto, ma non l’abbiamo usato nel senso giusto’. Ormai i nostri rapporti non erano più come prima, in me si era rotto qualcosa, e lui lo sapeva che dell’antica amicizia c’era ormai poco’. Processo che era molto seguito dalla stampa e dall’opinione pubblica: parlando con i giornalisti, attivando tutta una serie di rapporti tanto da far passare in secondo piano le nostre imputazioni e porre invece in risalto il problema del carcere. 
Il carcere era il primo momento di aggregazione per tutti i detenuti, in quanto al massimo fuori c’erano le cosiddette batterie, piccole bande di ladruncoli, e solo due o tre bande di rapinatori, di cui una era la nostra. 1.e batterie erano formate da gente che si arrangiucchiava, molto gelosa della propria attività, chiusa agli altri, e il loro mondo era tutto li. Il primo momento di confronto con gli altri avveniva proprio in carcere, e da lì si cominciò a fare le prime richieste comuni. 
Cominciammo con la possibilità di avere il fonelletto; cosa che ci costò sangue, 3 morti, e anni e anni di carcere: qualunque cosa, anche banale, di cui oggi qualunque prigioniero pub usufruire -persino il tagliaunghie, o un chilo di pasta, un dolce -è costata tanto di quel carcere, botte e morti a tutta la generazione Precedente di detenuti, quella che non aveva niente e che ha conquistato tutto. 
Coloro che diventavano più attivi nelle lotte erano i cani sciolti, quelli che non appartenevano alle grosse organizzazione criminali, anche se non mi piace usare questo termine. Di criminali conosco, in questo periodo, i milanesi delle tangenti, quelli sono i veri criminali! 
Con coloro che avevano avuto un qualche rapporto col mondo del lavoro, anche di riflesso come figli di lavoratori, magari le pecore nere della famiglia, e che per6 conoscevano i problemi della fabbrica, ne avevano discusso, era più semplice parlare, fargli capire che per conquistare le cose bisognava lottare, così come i loro padri in fabbrica scioperavano. Si cominciava a confrontarsi, a discutere gli articoli dei giornali, a dare delle prospettive alla lotta. Per molti anni il vero handicap di quelle lotte fu proprio che non riuscivamo a portarle a conclusione. Cioè? si cominciava, per esempio, l’occupazione di un braccio perché volevamo il fornelletto, ma non riuscivamo a stringere: ci mancava il momento della mediazione, e finiva inevitabilmente solo a botte. Le guardie entravano, noi ci difendevamo, e finiva l”; magari il mese dopo ricominciavamo, ma eravamo punto a capo. Poi, con l’andare del tempo, con la realtà fuori che cambiava e il carcere che cambiava perché entravano altri compagni, attraverso lo studio e la riflessione, cominciammo a capire che oltre alla lotta doveva esserci anche la trattativa: il momento della difesa di quello che avevi già conquistato e che non ti dovevi far togliere. 


Sembrano cose assai lontane. Sono soprattutto nascoste, sconosciute… Riprendi la lotta per il fornello. 

La questione del fornello fu drammatica. Nel ’70 era cominciata la battaglia per un’amnistia per le lotte sindacali dell’autunno caldo, del ’69, attraverso la quale si sarebbero dovuti abbonare tutti i reati specifici, e solo quelli. C’erano molti compagni dentro, specie di Lotta Continua, e a San Vittore partì la lotta per generalizzare questa amnistia a tutti i reati. Fu la prima volta che si lanci6 una parola d’ordine del tutto politica, e cioè che se si voleva dare l’amnistia solo ai politici: eravamo tutti detenuti politici! Slogan che rappresentò un salto di qualità per la presa di coscienza di molti ragazzi. Continuavano anche le lotte individuali e, nonostante fosse difficile far capire a chi aveva un problema con il giudice che noi potevamo appoggiarlo ma non risolvere il suo problema specifico, aprimmo un ufficio legale per i detenuti meno abbienti che non potevano pagarsi l’avvocato, dove dei giudici in pensione cercavano di risolvere i vari problemi. Una sera, in una cella, scoppi6 un incendio e morirono arsi vivi tre ragazzi, tutti intorno ai 20122 anni. L’incendio scoppiò verso le otto di sera, la guardia, che doveva controllare 4 piani, tutti chiusi, senza acqua, senza gabinetti, con la gente che urlava in continuazione, non fece in tempo ad aprire la cella n° 71 del IV raggio di San Vittore e i tre morirono. Il giorno dopo ci fu una grande rivolta, scontri ‘durissimi, e poi andammo a trattare e ottenemmo, mi ricordo, il fornello e la pasta.. . ci costarono tre ragazzi morti. All’inizio, tuttavia, le lotte erano pacifiche, sit-in, scioperi della faine, resistenza passiva; forse riformiste nella forma, ma rivoluzionarie nella sostanza perché per la prima volta mettevamo insieme centinaia di persone diversissime tra loro. All’esterno gran parte della classe si organizzava al di fuori dei grandi partiti politici, creando delle strutture ed organismi autonomi, come Lotta Continua o Potere Operaio: ogni sabato c’erano scontri in piazza, e alla domenica entravano in carcere un sacco di compagni, con i quali cominciammo a stabilire rapporti. 
Bisogna dare atto ai compagni di L.C., nonostante le polemiche successive, che si impegnarono tantissimo sul terreno del carcere, aiutando i detenuti in tutti i modi, creando spazi, maturando insieme. Si crearono i primi rapporti stabili interno-esterno. Ricordo sempre con molto piacere tutta una serie di compagni che su questo ci hanno dato moltissimo, anche se successivamente hanno fatto scelte diverse. 


Intorno al ’72-73, come reagivano la custodia, la direzione, lo stato, di fronte a queste cose

Ovviamente con la violenza. 
All’interno delle prigioni si andavano caratterizzando delle figure particolari, gente che si esponeva di più, che faceva militanza seria e che quindi veniva subito individuata e repressa. Qualunque cosa accadeva, non succedeva perché la situazione era invivibile, ma perché eri tu che la fomentavi, e così diventavi il capro espiatorio. Cominci6 così un giro vorticoso di trasferimenti: tra il ’71 e il ’73 io, così come molti altri, non stavo più di 15-20giorni in un carcere che venivo trasferito, perché ero ritenuto un sobillatore. Non capirono che in realtà stavano facendo il nostro gioco, perché dovunque andavamo cominciavamo ad essere conosciuti ed ad aggregare persone. Se mandavano via me, ne arrivava un altro che portava, come per il Vangelo, la buona novella da Bolzano a Noto. 
(“erano anche le durezze. Ci facevano fare sempre le celle di punizione per non farci stare nei bracci con gli altri detenuti, ma ormai questo lavoro di cucitura, di discussione e di lotte che partivano contemporaneamente in 15-20 carceri, era un’epidemia che lo stato non riusciva a gestire. Cominci6 a delinearsi quello clic sarebbe stato il frutto di tutte queste lotte sul piano legislativo, ci06 il nuovo regolamento penitenziario: il Ministero di Grazia e Giustizia comincia quegli studi che portarono, nel ’75, alla nuova legge di riforma penitenziaria. 
Ma11 mano che si andava avanti nel tempo le lotte assumevano un carattere sempre più violento, anche perché la risposta era sempre violenta: a Firenze avevano ucciso Del Padrone sul tetto, dove si era rifugiato insieme ad altri 8-10 compagni. Questi detenuti che occuparono i tetti del carcere avevano stabilito un rapporto politico con un collettivo del quartiere: il collettivo Jackson, in cui c’erano i fratelli Luca e Annamaria Mantini, successivamente passati ai Nuclei Armati Proletari, i NAP, e uccisi dalla polizia, c’erano i fratelli Abatangelo, anche loro nappisti e tuttora prigionieri. 


C’erano altri organismi esterni che si interessavano delle lotte dei detenuti, oltre alla già citata Lotta Continua? 

È importante riprendere il discorso sul ruolo di alcuni organismi, essenzialmente Lotta Continua, Re Nudo, che era un bellissimo giornale underground che ci diede parecchio spazio, Soccorso Rosso, che fu importantissimo perché intervenne sul piano giuridico a sostegno delle lotte, e nei processi che inevitabilmente seguivano le lotte. Soccorso Rosso fece quel bellissimo libro sulla strage di Piazza Fontana, che bisognerebbe far leggere ai compagni più giovani. li poi Dario Fo e Franca Rame con i loro spettacoli ci sostenevano, anche in termini di solidarietà concreta; mandando libri, riviste, indumenti (spesso nelle rivolte perdevamo proprio tutto…) e, quando era possibile, del denaro. 
Cominciavano a circolare i primi libri, anzi una delle battaglie più grosse fu proprio quella di poter leggere libri che non fossero quelli della biblioteca del carcere, che riguardavano le vite dei santi. Non avevamo neanche i giornali, e i libri erano visti con sospetto dalla direzione, però il materiale entrava in carcere attraverso i compagni che restavano in carcere, per loro fortuna, per poco tempo dopo gli scontri. I primi libri die circolarono, che furono discussi, analizzati, direi divorati, furono quelli delle Pantere Nere, gli scritti di Malcolm X, Anima in ghiaccio di Cleaver, Cogliere l’occasione di Bob Scale, libri ancora oggi attualissimi, che hanno segnato tutta una generazione di compagni. Anche Fanon, il cui testo fu essenziale nel carcerario, tant’è che poi il movimento prese il nome di Dannati della terra, che t? il titolo del libro più famoso di Fanon e che considero la bibbia dei discriminati. 
La nostra principale esigenza era quella di capire cosa stava succedendo fuori, per questo chiedevamo spazi sui giornali dei compagni per pubblicare lutto quello che usciva dalle nostre lotte, magari anche i volantini sgrammaticati e fatti male. 
Il giornale Lotta Continua da settimanale divenne quotidiano e tenne una rubrica fissa, “i dannati della terra”, in cui noi intervenivamo, spiegavamo le nostre ragioni. Chiedevamo tutti i loro documenti, cominciando così ad uscire dall’ambito carcerario e a capire cosa si muoveva fuori. Era un periodo in cui sotto a San Vittore passavano tutti i sabato 50-70.000 giovani, operai e studenti. E il sabato noi ci organizzavamo perché dalle bocche di lupo potesse spuntare fuori una bandiera rossa, uno strisciane.Era diventato un rito che, a Milano, qualunque corteo doveva passare sotto le mura del carcere, sia perché c’erano dei militanti dentro, sia perché il problema del carcere in generale era sentito come proprio dal movimento rivoluzionario. Questo legame quasi fisico con il movimento rappresentava un salto di qualità, ci sentivamo un tutt’uno con la lotta degli operai, degli studenti. 
Nascono così i primi collettivi di compagni, si formano le avanguardie comuniste, collettivi di studio e di elaborazione nelle carceri di Perugia, Porto Azzurro, Lecce. Il rapporto con L.C. si fa sempre più stretto, diventa anche organizzativo poiché nel frattempo alcuni compagni avevano esaurito la loro pena e cominciavano ad uscire. 
Mentre nel passato chi usciva riformava la famosa batteria, adesso c’era quasi una crisi di identità poiché, dopo due o tre anni di quella vita, non si era più ladri ma neanche completamente compagni. Alcuni, cercando una propria dimensione, andavano a lavorare per la prima volta in vita loro, non per farsi sfruttare, ma per trovare un luogo di aggregazione dove fare politica e trasmettere la propria esperienza del carcere in fabbrica. Si costituì un comitato per i detenuti, formato da ex, con ruoli abbastanza importanti nella stessa L.C.. 
Nel frattempo, siamo a1 ’73-74, la lotta dentro si fa sempre più dura, e il governo decide, sottobanco, nelle persone del ministro Tanassi e del capo di stato maggiore della difesa Henkel, che i corpi speciali dell’esercito avrebbero dovuto intervenire nelle rivolte carcerarie. Fu un affare tipo Gladio, che suscitò un grosso scandalo ripreso da tutta la stampa. Da ci si può capire cosa eravamo riusciti a mettere in piedi e, in più, fuori in quegli anni nascevano le BR, provocando un forte impatto emotivo nelle prigioni. Certamente per sua natura un detenuto, uno che ha fatto certe scelte, i? essenzialmente un uomo d’azione, quindi è sensibile a determinati eventi. Non è questione di violenza-non violenza: un detenuto la violenza la subisce sempre su se stesso, se può la esercita, e se la vede esercitare contro obiettivi che ritiene giusti, i? naturale che provi un certo interesse per chi la compie. 
Oltre al fatto che c’era stata già la morte di Del Padrone, ci fu un episodio che mandò definitivamente in crisi il rapporto tra il carcere e L.C., e fu la strage nel carcere di Alessandria. (Esiste un opuscolo, che k un reperto raro, l’atto da Lotta Continua, Avanguardia Operaia e dal PDUP)


Senti, nel 1975 venne approvata, come abbiamo detto in precedenza, la legge di riforma penitenziaria, che i reazionari definirono troppo permissiva mentre i “democratici” come una legge molto avanzata. Dopo solo due anni, ci fu una svolta che riportò le condizioni di detenzione a livelli di pura sopravvivenza. 
Mi riferisco alle carceri speciali. Ci puoi dire cosa furono e quali furono i detenuti che vi vennero rinchiusi? 

Nel 1977 si arriva ad una situazione di ingovernabilità delle carceri, sia per i livelli di organizzazione interni, che per il forte attacco delle organizzazioni annate all’esterno e per di più in un periodo di crisi economica . Com’e comune a tutti i periodi di crisi, anche allora si volle sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dal problema economico, dirottandola sulle carceri. (Oggi, di fronte alla grave crisi economiche politica del regime e all’emanazione di decreti antipopolari tremendi, si dirotta l’attenzione della gente sulla lotta alla mafia, sullo scandalo delle tangenti, sulle riforme istituzionali che non serviranno sicuramente ai proletari ma a ridefinire il potere di gruppi economici e politici). 
Ci andrebbe una puntualizzazione… Le carceri speciali nascono nel luglio del ’77, cioè vengono inaugurate nel luglio del ’77; se ne aveva già eco prima, erano già in allestimento. Quindi si sapeva quale era il progetto dell’esecutivo perché – e questo è importante – dal Ministero di Grazia e Giustizia, che ha sempre gestito le prigioni, stavolta e l’esecutivo in persona, cioè il governo, che prende sotto di sé il destino dei prigionieri attraverso un suo uomo di fiducia che era Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale dei carabinieri responsabile della strage di Alessandria. Il quale per la prima volta nella storia, diciamo, carceraria ha in mano la responsabilità della sicurezza delle prigioni. 
Questo nasce da due esigenze. Una era quella che il movimento “dei dannati della terra”aveva acquisito le riforme penitenziarie; acquisendo quello strumento li aveva ratificato anche un grosso potere all’interno delle prigioni: al17epoca si parlava… – noi non lo conoscevamo, perché furono parole d’ordine venute successivamente-ma era veramente il potere rosso. Personalmente l’ unico potere rosso che io ho conosciuto nelle prigioni è stato quello dei dannati della terra; non tanto quello successivo, poi molto, come dire …, propagandato, quando si era all’interno o vicini alle organizzazioni armate.. . Ma quella era stata veramente l’epoca di un grosso potere rosso, quello di massa, quello che coinvolgeva gran parte dei detenuti. Quindi, avevamo spiegato anche all’epoca, che nel momento in cui il governo, lo stato cedevano su questo terreno, perché varano la riforma penitenziaria sotto una spinta poderosa di lotte, eccetera, come sempre non si ristruttura nulla rispetto alle nuove esigenze e quindi abbiamo veramente una situazione di potere nelle prigioni. Questo è un aspetto. 
L’altro aspetto riguarda, diciamo, le organizzazioni annate. Ricordo che fu clamorosa ed anche un po’ decisiva una delle ultime fughe, che erano “di massa”. Infatti da Treviso fuggono 13 prigionieri, fra cui Prospero Gallinari. Perché, all’epoca, tutti i compagni di esperienza di lotta armata, generalmente, venivano distribuiti nel circuito delle prigioni e, ovviamente, questi qui, già con il prestigio di essere membri delle BR o dei NAP; già perché, quando sono arrivati nelle prigioni hanno trovato un terreno assai fertile, fatto di simpatia, fatto di aggregazioni politiche, era naturale il fatto che loro si ponessero immediatamente come punto di riferimento all’interno delle varie prigioni. E quindi c’erano state già, all’epoca, la fuga di Renato Curcio; alcuni altri tentativi di fuga: da Bologna avevano provato Vicinelli, i compagni di Argelato e c’era anche Zuffada e per un pelo non c’erano riusciti. Insomma i compagni cominciavano a muoversi in questa direzione. Lo stato capì il pericolo e accelerò il fatto che bisognava porre rimedio. 
Decise allora, di concentrare tutti i compagni. 
Tuttavia le organizzazioni annate cominciavano a subire i primi colpi: i NAP vennero smantellati dalla repressione quell’estate. Ci fu un tentativo, poi riuscito, per cui i resti entrarono nelle BR. Ma questa i? un’altra storia che riguarda quei compagni. 
Dalla Chiesa approfitta della situazione di debolezza per dar seguito al progetto degli speciali. Tutti i compagni delle BR, dei NAP vennero riuniti, ma ci capitarono in mezzo anche ragazzi soltanto un po’ vivaci; ogni direttore faceva il suo elenco, e poi lo centralizzava al Ministero di Grazia e Giustizia, mettendo in mezzo tutti coloro che davano fastidio, i classici “cagacazzo” anche non compagni. Persone giovani, estremamente vivaci, che, però sono solo vivaci; non accettano le condizioni di detenzione, perché è molto più duro stare in galera a 20/22 anni che starci a 50!… Io lo so per esperienza… Insomma ci sono dei meccanismi proprio naturali dell’individuo, il quale non accetta ed ha dei comportamenti di ribellione, per~.. . da quello a classificarlo persona estrema-mente pericolosa, ce ne corre! 
Le direzioni per disfarsi dei fastidiosi li mettevano dentro. Fecero una prima classifica di 2500 persone. C’era una minoranza della grossa malavita, non quella organizzata, ma personaggi tipo Vallanzasca, gente in gamba, conosciuta per le sue imprese. Con queste persone c’erano dei rapporti corretti, perché durante le lotte non si erano mai tirati indietro, anzi! Erano simpatici a tutti, il loro obbiettivo, era molto semplice, come il nostro, del resto: era quello di scappare! Erano ragazzi puliti non inquinati, non compromessi. Magari non la pensavano come te; non li potevi considerare compagni a tutti gli effetti, ma, in certe occasioni, erano, diciamo, dei grossi compagnoni che non ti lasciavano nella merda in nessuna circostanza, in nessuna occasione. E questo i? bene dirlo, soprattutto ai giovani compagni. Ti potevi fidare. Era gente di cui ti potevi fidare; erano a “disposizione”, come si diceva in galera, e non bisogna dimenticarli perché molti di loro sono ancora dentro. 
Fu così che tra il luglio e l’agosto del 1977 circa 2500 prigionieri vennero trasferiti con treni, elicotteri, aerei in cinque carceri: Fossombrone, Termini Imerese, Asinara, Favignana, Nuoro. Questi trasferimenti furono attuati con una vera e propria operazione militare. 
Io ero a Fossombrone, reduce da una fallita evasione dal carcere di Favignana e fui portato all’ Asinara, insieme ad altri compagni. Fummo divisi in due posti diversi dell’isola: una parte alla Diramazione Fornelli, che era una sezione un po’ più allargata, e una ventina a Cala d’Oliva, nei famosi bunker, nella segregazione più assoluta, in una situazione veramente allucinante. Mancava tutto e con agenti di custodia particolarmente addestrati a certi tipi di porcherie e vessazioni. In più, come direttore, avevamo il più porco di tutti, Cardullo; si scoprì in seguito che lavorava per i servizi segreti e, anni dopo, fu condannato a cinque anni per avere intascato soldi destinati ai lavori di blindatura delle sezioni speciali dell’Asinara. 
Sai, come sempre, lo stato questi servi qui li usa; poi, quando li ha spremuti, li getta via.. . 
Per6 a quell’epoca attaccare Cardullo era.. . significava un’offesa per lo stato. Quindi la situazione era molto delicata, ma c’era il vantaggio che eravamo tutti concentrati, ed io per la prima volta conobbi tutti i compagni di cui avevo sempre sentito parlare e con cui sarei rimasto fino all’uscita. C’era grande affetto, grande curiosità, come quando ti trovi tra compagni, anche se in condizioni molto dure.. ., sia per la novità, sia perché si cominciava a far parte di una dimensione collettiva qualitativamente diversa dal passato. 
Subivo questa contraddizione: negli altri posti ero sempre stato emarginato, a Favignana – un penale vicino a Trapani – ero stato quattro anni in situazioni buone dal punto di vista materiale, ma politicamente ero isolato e super controllato; all’ Asinara invece ero contento perché dopo tanti anni dividevo la mia sorte con altri compagni, anche se la nostra condizione era pessima. 


Come poteva funzionare questa dimensione collettiva, rispetto alla socialità? 

Beh, i prigionieri sono molto in gamba in queste cose qui; perché ci sono mille e mille modi per cui tu riesci a rompere l’isolamento. 
Eravamo quattro per cella, cella stretta, ma il fatto di metterci in quattro non era un vantaggio, perché era un posto in cui uno solo si sarebbe sentito a disagio, avrebbe avuto poco spazio: solo per fare due passi nella cella, gli altri tre dovevano stare in branda. Avevamo solo un’ora d’aria in una cella senza tetto, una cella accanto in cui andavamo in otto. Ma avevamo tutta una nostra piccola serie di sistemi per comunicare. Tra l’altro vigeva il divieto assoluto di parlare tra le varie celle, ma, in determinati momenti, magari durante il cambio delle guardie, ci riuscivamo, sia pure una parola o due; lavorando nei cessi si era intravista la possibilità di far passare dei messaggi, messi nella plastica, attraverso le tubature: il carcere ti aguzza l’ingegno! 
Il nostro trattamento suscitò un grosso scandalo, un po’ su tutti i giornali; fu l’ultima battaglia che fecero i garantisti: vennero tutti…, giornali, televisioni estere…, a vedere in quali condizioni ci avevano messo.
Fu li che ricominciai a sentire fame (e io sono uno abbastanza frugale uno che si accontenta di poco…, ma lì la cosa era scientifica), perché proprio attraverso l’affamamento, oltre che i pestaggi e tutto il resto, volevano annientarci. 
Dovevamo rappresentare anche un deterrente nei confronti di tutti gli altri detenuti che avessero voluto ribellarsi e, di fatto, ci fu un attimo di sbandamento: all’inizio ci fu un blocco delle rivolte, i prigionieri volevano capire cosa stava succedendo. Qualunque detenuto in qualunque carceretto aveva di fronte la situazione di noi tutti messi in croce negli speciali. La nostra sorte era una pesante minaccia per tutti. 
Cercarono di isolarci anche dall’esterno: i colloqui erano tanto pochi e sempre più difficili: o non c’era il battello, o il permesso non arrivava in tempo… Cominciarono a mettere i vetri e anche -scoprimmo poi-i microfoni nelle celle; noi avevamo coscienza che comunque lì era una situazione fuori da ogni controllo e bisognava essere abbastanza prudenti, perché sicuramente i servizi segreti, o chi per loro, ci lavoravano e quindi c’era una specie di autocontrollo rivoluzionario. Quindi si passarono alcuni mesi abbastanza duri, senza capire bene come le cose dovevano andare e cominciò anche la riflessione per capire, poi, cosa avremmo potuto fare. Però ci furono tempi lunghi, proprio per le difficoltà di collegamento, di discussione collettiva. 
Ricordo che Severina, la mia compagna, che pure era una delle più intraprendenti, per vedermi dovette andare più volte al Ministero, contattare parlamentari e giornalisti, inscenare con altri familiari diverse proteste come l’occupazione dell’ufficio del giudice di sorveglianza di Sassari o la sede della Stampa Estera a Roma. Per questa sua attività di denuncia, fu anche arrestata a scopo intimidatorio, come & accaduto ad altri familiari. Durante tutta la mia permanenza all’ Asinara, io feci sempre i colloqui diviso dagli altri compagni, perché sospettavano chissà quali legami. E poi c’erano mille altre angherie. 
Passammo mesi duri, senza capire come sarebbero andate le cose, ma poco a poco cominciammo ad organizzarci, a riprendere fiducia, perché sentivamo che fuori c’era molta attenzione verso di noi; il movimento era sensibile alla sorte dei prigionieri. 
La scelta dei parenti di fondare l’AFADECO (Associazione Familiari Detenuti Comunisti) per denunciare le nostre condizioni ed affrontare i problemi collettivamente si rivelò giusta e alla fine riuscì a rompere il nostro isolamento. 
I genitori di tanti compagni, pur non condividendo le scelte fatte dai figli, furono molto bravi e decisi. Molti di loro erano del PCI che, come sappiamo, era all’avanguardia nel chiedere più repressione e vivevano questa contraddizione tra la loro militanza, la loro collocazione politica ed il trattamento che subiva il figlio militante BR o NAP. 
Per i “dannati della terra” cominciò un periodo veramente pesante, anche perché, contemporaneamente, si apriva il discorso dei permessi e i direttori e i giudici di sorveglianza, che avevano la più ampia discrezionalità nella concessione di questi, tendevano ad isolare i detenuti più determinati nelle lotte. Ci fu cosi uno scollamento, cominciarono due storie parallele, anche se noi non fummo dimenticati e ci furono lotte in solidarietà con noi a Torino, Milano e in altre carceri. Questo avveniva quando venivamo trasferiti dagli speciali nelle carceri normali per dei processi. 
In tutte le carceri avevano costruito delle sezioni speciali, dove venivamo messi. E gli altri detenuti, che ci sapevano in isolamento, erano solidali attuavano delle proteste. Era tuttavia una fase discendente: era finita un’epoca, quella dei “dannati della terra”e cominciava un’ altra esperienza, che ci vide completamente separati alla popolazione detenuta, la nostra base di massa. 
Come ho detto, la creazione degli speciali suscitò un certo clamore sulla stampa, specialmente rispetto all’Asinara e alla struttura bunker di Cala d’Oliva, di un biancore accecante. Un posto che dovrebbe diventare un monumento! 
Tuttavia, una parte degli intellettuali, quella che si fa garantista quando non ha nulla da perdere, aveva già scelto. Quando le cose si prospettano male, si dileguano ed sbagliato chiamarli garantisti. Oggi infatti nessuno dice nulla sulle porcherie che stanno facendo con i decreti antimafia, con l’impiego dell’esercito in Sicilia, Calabria, Sardegna, con il ripristino di misure di detenzione durissime contro gli accusati di reati di mafia. Eppure sono cose molto preoccupanti, anche se la gente sembra più preoccupata del ragazzotto sardo che butta una rudimentale bomba contro quelle che ritiene forse di occupazione, piuttosto che della militarizzazione di intere regioni, come fossimo in un paese latinoamericano. 
Dicevo prima che coloro che davano più sostegno a questa porcheria delle carceri speciali erano quelli del PCI: Antonello Trombadori in prima fila, che era attivamente impegnato ad illustrare la politica repressiva del suo partito a sostegno dell’esecutivo. Quotidianamente, scriveva sull’UnitA peste e corna dei prigionieri e così dava il benestare del PCI al trattamento dei detenuti differenziati, così come sul Corriere della Sera faceva quel vecchio rimbecillito di Leo Valiani, padre della patria. Trombadori continuò per un paio d’anni, fintanto che non venne in un certo modo smascherato, da una scoperta che feci. 
Sono un appassionato della storia del movimento operaio e, avendo allora molto tempo, leggevo tutto quello che veniva prodotto sull’argomento. Sugli 
Annali editi da Feltrinelli, che riportano tutte le lettere e i documenti prodotti da Secchia, lessi le considerazioni di quest’ultimo a proposto dei traditori o della fiducia prestata a persone che non la meritavano (si riferiva alla sua vicenda legata all’affare Seniga): ‘Ho già risposto altre volte. Anche i più grandi uomini furono ingannati e traditi, Lenin compreso, Trotskij pure. Ed anche Stalin. Non parliamo di Togliatti che ebbe tra i suoi intimi amici Tasca, Silone, E. Reale ed altri, che affidò la direzione dell’ufficio nero a Trombadori con la conseguenza di fare arrestare numerosi compagni, con conseguenze gravi per il partito ed anche per i compagni che pagarono con lunghi anni di carcere e alcuni con la vita’. Secchia scriveva inoltre: ‘Non sono stato rieletto nella direzione del Partito. Nella commissione nominata dal Comitato Centrale Trombadori si? pronunciato a favore della mia esclusione in modo arrogante e brutale’. 
Del resto, lo stesso Trombadori, durante un’intervista televisiva, descrisse un episodio della Resistenza, che dimostra il suo comportamento tutt’altro che da resistente. Proprio lui, che veniva dipinto come uno dei capi della Resistenza romana e, proprio per questo, con meriti morali per parlare contro di noi, non aveva mosso un dito per salvare i suoi compagni, caduti in un’imboscata della polizia fascista e, alla quale, lui solo era sfuggito. Aveva appuntamento con loro per una riunione del CNL e, sul luogo dell’appuntamento, aveva assistito all’arresto di tutti i suoi compagni, catturati uno alla volta. 
Per chi come me sentiva ancora molto forte il mito della Resistenza, avere contro un personaggio che scoprivo così squallido fu un fatto importante. Alla prima occasione, durante un processo, scrivemmo un volantino nel quale sostenevamo che un personaggio come Trombadori non aveva alcun titolo per esserci avversario e che noi meritavamo, almeno, nemici più dignitosi. 
Del resto, in tempi recenti, dopo essere stato emarginato dal PCI, era diventato talmente confuso e poliedrico da partecipare a tavole rotonde con i fascisti e per questo è stato duramente attaccato anche dalla sinistra giovanile. Dopo la nostra denuncia scomparve e il ruolo di nostro nemico dichiarato fu assunto da Pecchioli che, secondo Cossiga, in quegli anni collaborava con i servizi segreti contro la sinistra rivoluzionaria. E Cossiga, ministro degli Interni dell’epoca ed ex capo dei gladiatori, queste cose le conosce bene. 
Questi erano i personaggi che sostenevano la DC, nel momento in cui per la prima volta nella storia del movimento in Italia, un’avanguardia proletaria, studenti e operai, metteva con le spalle al muro il partito di governo che, con gli intrallazzi che conosciamo, ha governato per mezzo secolo il paese. Chiudendo illegalmente ogni spazio politico e di progresso alle classi lavoratrici. E questo viene salvato dalla politica della solidarietà nazionale. 
Ritornando agli speciali. Questa concentrazione ci crea indubbiamente dei problemi di natura organizzativa. 
Eravamo conciati male, però, siccome l’uomo ha mille risorse, anche in quella situazione, faticosamente, dolorosamente, riusciamo a ritessere la nostra tela. Con mille sotterfugi riuscimmo a ricostruire una dimensione collettiva fra di noi, ed anche all’esterno rilanciammo un minimo di dibattito. Cominciarono i rapporti con le altre prigioni; le notizie rimbalzavano dai giornali, da chi riusciva ad avere i colloqui. 
Le reazioni furono strane, a Favignana per esempio, ci fu un tentativo di evasione che, se da un lato ci rincuorò, dall’altro , essendo fallito, ci fece temere particolarmente che ci facessero tornare indietro, togliendoci quel poco che eravamo riusciti a riprenderci. Erano soprattutto le organizzazioni armate ad attaccare; io sfuggivo un po’ a queste situazioni, sia per la mia storia, per la mia lunga detenzione, sia per le mie convinzioni, dal momento che non ero un militante delle BR. Pur rispettando le decisioni collettive, non ero tenuto ad una disciplina di partito; però i miei referenti in quegli anni erano loro, anche perché il movimento era in crisi, LC scomparsa come organizzazione. 
Tuttavia ero dell’avviso che si dovesse dialogare di più, dare più informazione, più strumenti al movimento; mentre loro ne facevano una questione di partito, cioè erano chiusi, anche per la preoccupazione che la nostra sorte di prigionieri non terrorizzasse i compagni fuori, i più giovani. 
Comunque tutto il materiale che si riusciva a far uscire veniva pubblicato dai giornali di movimento. Ho scoperto poi che veniva anche discusso; una lettera, che per noi era normale, fuori aveva un grosso impatto. 
Passi3 un po’ di tempo prima che ci si organizzasse; fuori le BR e PI. rilanciavano le loro parole d’ordine, la loro politica, le loro azioni, e quindi noi non eravamo più scoperti come prima di fronte alla grossa crisi che c’era. 
Nel ’78 viene sequestrato Moro e, durante il sequestro, attraverso la richiesta di scambio dei prigionieri, viene sollevato in maniera eclatante il problema dei prigionieri, anche se non mi compete entrare nel merito della questione. Comunque il fatto che avessero chiesto la liberazione di 13 prigionieri -tra cui la mia- che erano tutti conosciuti nelle carceri, rilanciò all’interno un ciclo di lotte per la riconquista della “socialità” interna, che voleva dire che non volevamo stare più in 2 o 4 in cella, o in una cella singola e poi andare all’aria e vedere sempre le stesse persone, ma poter avere degli spazi collettivi per stare insieme, discutere. E, soprattutto, la socialità verso l’esterno: più colloqui, senza vetri, più ore, e migliori condizioni di vita; perché, insomma, si mangiava poco; il cibo era quello che era. Personalmente, non mi vergogno a dirlo certe sere ero avvilito, dato che avevo fame: la fame sembra una cosa stupida, no? Ma quando c’è una cosa brutta.. . ti avvilisce, anche perché io l’ho provata da bambino: anni ’50, anni difficili; il ’48, nel collegio, e poi l’ho ritrovata in prigione.. . 
E quindi il problema centrale erano proprio questi spazi politici che volevamo prendere sia dentro che fuori: agganciare le situazioni di compagni che esistevano sul territorio. A Nuoro, per esempio, fu importante per i parenti che venivano dal continente, che ci fosse la solidarietà dei compagni sardi, i quali furono bravissimi. Dentro ci conquistammo più spazi con le lotte: la prima fu quella dei vetri divisori ai colloqui. Il vetro cominciò a diventare il simbolo di quella lotta lì. La lotta di questa tua condizione di persona esclusa da tutto quanto e, quindi, le prime lotte riguardavano l’abbattimento del vetro; ma, insomma, erano vetri corazzati, grossi così! é noto che i colloqui avvenivano attraverso dei grossi vetri e con dei microfoni, che probabilmente servivano anche a registrare quello che dicevamo, così non avevamo nessun contatto fisico con i nostri cari. Tuttavia non era facile romperli, l’unico che ci riuscì fu Nicola Abatangelo, ma solo lui ci riuscì, …lui è, una montagna; solo lui poteva riuscire! Per lo più ci si accaniva rispetto ai microfoni e loro ce li tolsero, così per parlare dovevamo urlare tutti attraverso i vetri, ed era una situazione sempre più allucinante: ogni lotta si ritorceva apparentemente contro di noi.