21 gennaio 2000
L’incontro con Sante ha avuto luogo negli studi di Radiondarossa di Roma il 21 gennaio 2000. Sante si è recato a Roma in quell’occasione per festeggiare la definitiva riconquista della libertà piena (e non più condizionale come negli ultimi anni). Il saluto con il compagno e amico di Roma è avvenuto al Csoa Ex-Snia Viscosa a partire dal pomeriggio del 21 gennaio nel corso dell’iniziativa “Ricominciamo da Sante”. In serata, attorno a un’imponente tavolata, si è mangiato, bevuto, chiacchierato. Amicizie e legami di anni, ma anche persone che si incontravano lì per la prima volta e che con naturalezza hanno saputo entrare in sintonia tra loro e condividere lo stesso clima di festa. Quella sera non sono serviti discorsi per far sentire vicine generazioni diverse. Libertà è stato l’unico discorso, semplice, chiaro, capace di essere compreso da tutti e di mettere tutti in comunicazione.
La mattina del 21 gennaio Sante si è recato negli studi di Radiondarossa per una trasmissione alla quale hanno partecipato un compagno di Liberiamoci del carcere, un compagno e una compagna del Csoa Ex-Snia Viscosa. Riportiamo qui di seguito la trascrizione di quella mattinata radiofonica. Abbiamo scelto di riprodurre fedelmente quanto detto dai microfoni, per cercare di dare un’idea del clima così comunicativo che Sante ha saputo creare quella mattina negli studi della radio.
Radiondarossa
Un saluto a tutte le persone in ascolto e in particolare a chi in questo momento sta ascoltando Radiondarossa dalle carceri di Rebibbia, Regina Coeli, dall’Istituto Penale minorile di Casal del Marmo, dal Centro di Permanenza Temporanea di Ponte Galeria, a chi si trova agli arresti domiciliari o è latitante, a chi è privato in qualsiasi forma della propria libertà personale.
Siamo qui con Sante Notarnicola, oltre venti anni passati in carcere, costretto per i continui trasferimenti a transitare per quasi tutti gli istituti di pena italiani. Venti anni di reclusione caratterizzati da una forte e continua battaglia per la libertà, che ha visto Sante protagonista delle varie fasi di lotta all’interno del carcere: prima con il movimento dei “dannati della terra” che all’inizio degli anni ’70 si mobilitò in tutti gli istituti della penisola ottenendo nel 1975 la Riforma carceraria, un provvedimento che in parte tradiva le richieste dei detenuti, ma che sicuramente senza quella lotta non avrebbe visto la luce. Dalla fine degli anni ’70 la battaglia di Sante proseguì con un avvicinamento alle organizzazioni combattenti che riempivano sempre più le patrie galere, fu il periodo delle carceri speciali quando lo stato utilizzò l’isolamento, l’annientamento psicofisico, la dissociazione e il pentitismo per fiaccare la conflittualità all’interno del carcere; nel 1988 Sante ottiene il regime di semilibertà e poi la liberazione condizionale … fino ad oggi, gennaio del 2000, che ci troviamo a festeggiare il definitivo esaurirsi dei suoi “conti con la giustizia”.
In base a quella che è stata la tua esperienza da dove può prendere le mosse oggi una campagna di libertà, contro il carcere, un carcere sicuramente molto diverso da quello che hai conosciuto tu, e allo stesso tempo una campagna per la libertà di quei compagni e quelle compagne che dal conflitto di classe degli anni 70 e 80 rimangono in carcere o sono in esilio?
Sante
Ciao saluto tutti e mi associo ai saluti che ha fatto il compagno soprattutto ai detenuti, saluto Rebibbia, ecc. ecc., un abbraccio veramente forte e sentito. Poi voglio salutare tutti i compagni romani con cui ho sempre avuto un buon rapporto e Daniele con cui abbiamo organizzato l’incontro di stasera all’ex-Snia Viscosa.
Secondo me è necessario fare un piccolo bilancio, rapido, di come in questi anni ci siamo mossi, di come siamo riusciti o non siamo riusciti ad imporre ciò di cui lorsignori avrebbero dovuto prendere atto e risolvere autonomamente. Alcuni di noi, ex-galeotti, o ex- seguito da quello che volete, sono andati in giro a raccontare la buona novella, a raccontare la storia. C’erano e ci sono tutt’oggi espressioni positive rispetto alla memoria storica ed alla condizione attuale di coloro che sono prigionieri. Il percorso è stato secondo me abbastanza contraddittorio. Nel momento in cui il movimento, o almeno larga parte di esso, pareva aver raggiunto un’intesa di fondo su questo problema, la maledizione storica della sinistra si abbatteva anche su questa che era una questione centrale. Mi riferisco al settarismo, alla difesa della propria parrocchia che ormai si è ridotta a difesa della propria famiglia.
Io credo che la questione dei prigionieri oggi è una questione che riguarda i liberi, riguarda i ventenni, i compagni che si avvicinano oggi alla politica, riguarda essenzialmente loro. Sono loro ad essere i protagonisti perché a vent’anni tu non ci stai. Io a vent’anni non ci stavo a nessun tipo di discorso, semplicemente non ci stavo. A sessant’anni divento un pochino ragionevole e guardo con curiosità a chi non ci sta. E’ importante che i ventenni non ci stiano di fronte a questa cosa così clamorosa che è la prigionia. E’ loro il privilegio dell’indignazione, il meccanismo della ribellione è tutto loro. Noi dobbiamo far sì che non venga sprecato questo patrimonio. Serve una parola d’ordine da lanciare perché i ventenni hanno bisogno sia di memoria storica sia di prospettive. Devono lavorare attorno a un progetto minimo, semplice, tranquillo: libertà per tutte le compagne e per tutti i compagni prigionieri e ritorno per gli esuli.
Le varie parrocchie, i vari clan, ecc. debbono ciascuna muoversi rispetto a quello che fanno, rispetto a quello che è il loro percorso e la loro sensibilità, mantenendo questo come aspetto centrale e unificante. Questo serve ai ventenni. Come nel mio caso l’esser rimasto incantato a 15, 16, 17 anni a sentire i partigiani e le loro storie ha in grossa misura determinato la mia esistenza successiva, lo stesso meccanismo va innescato con i ventenni di oggi.
Recentemente c’è stata l’esperienza di Silvia Baraldini, che colgo l’occasione per salutare, e prima ancora quella di Prospero Gallinari. Il movimento romano è stato protagonista di queste vicende, così come il movimento bolognese e di altre città. La libertà di Prospero per noi era una questione di natura politica e lo abbiamo sostenuto fino in fondo. In quel momento lì, però, si poneva il problema che il carcere non poteva rinchiudere una persona in tali condizioni di salute. In questo modo il discorso è stato allargato a tutti i malati, a Ricciardi e a tutte le situazioni che conoscevamo. Purtroppo sono rimaste molte situazioni che conosciamo molto poco sebbene siano veramente drammatiche.
Il meccanismo che fu messo in moto a partire dal convegno di Bologna dove era rappresentato tutto il movimento fu molto semplice e chiaro. Si era scesi sulla politica, ci si era rimpossessati della politica, si era smesso di ragionare come se fossimo una grande forza, prendendo atto di quelle che erano le forze minime. Bisogna capire che le chiavi della cella neanche un movimento forte ce le ha. Un movimento forte al massimo può mandarti un seghetto, può aiutarti ad evadere, ma non serve neanche più questo con il carcere attuale. E poi quelle evasioni lì sono state così poche anche quando eravamo forti… insomma bisogna ragionare in altri termini.
Le battaglie che si possono fare oggi sono tante, anche per i detenuti cosiddetti comuni. C’è il problema di come tu arrivi alla Gozzini, l’uso che viene fatto della Gozzini, della rieducazione che poi sono le leccate di culo che devi fare. Se anche hai rielaborato le eventuali cazzate e reati che hai fatto, se anche sei cambiato non è questo in realtà ciò che ti chiedono. Ti chiedono la passività, mentre nella Gozzini il protagonista sarebbe dovuto essere il detenuto che prendeva in mano la sua sorte… Solo lottando, aggregando, conoscendo i propri diritti e rivendicandoli puoi uscire in modo integro e dignitoso dal carcere. Questo meccanismo qui non va bene a nessuna direzione: chi oggi propone anche la minima cosa, un sit-in, lo sciopero della fame, … la Gozzini se la può scordare. Bisogna rivoluzionare questo meccanismo. Rendere le alternative al carcere automatiche e non sottoposte a meriti di merda.
I meriti sono altri: sono la tua applicazione allo studio, la tua applicazione alle cose. Dal carcere tu puoi anche uscire come un uomo nuovo. Fu proprio questo uno dei grandi risultati che ottenemmo all’epoca dei “dannati della terra”. Nessuno si ricorda qui un nome famoso per l’epoca, in tutte le carceri quelli con i capelli bianchi ancora lo ricordano: Martino Zichitella. Era un compagno, era un rapinatore, un rapinatore borghese, lui faceva le rapine per il vestito, la macchina bella, il night club degli anni 60…Lui in carcere si è trasformato, è diventato un compagno. E’ morto poco lontano di qua nel 1976, è morto facendo parte dei NAP, è stato ucciso durante un’azione in cui i compagni avevano attaccato un capo della Digos dell’epoca ed è morto con una tuta da operaio addosso. A me questa cosa qui, al di là che era un mio grande amico, questa cosa che lui è morto con una tuta addosso mi è sempre rimasta impressa: un percorso compiuto.
Allo stesso modo molti rapinatori e ladri quando sono usciti sono andati a lavorare. Non per il gusto di andare a lavorare per mettersi la cenere in testa, ma perché loro avevano imparato che sul posto di lavoro c’erano le aggregazioni, c’erano i compagni, c’era da fare politica, avevano imparato a fare politica. Noi avevamo insegnato loro che il carcere era una fabbrica, era la stessa cosa. Ed era la stessa cosa all’epoca: con i grandi numeri alla Mirafiori, alla Fiat, ecc. l’organizzazione del carcere e l’organizzazione della Fiat erano la stessa cosa. Solo che tu dopo le ore di lavoro uscivi e andavi a casa a riposarti e poi alle 5 a riaffrontarlo… non so cosa fosse meglio. Capito questo meccanismo abbiamo avuto un casino di persone che si sono presentate in modo diverso, diventando dei compagni e questo se lo sono guadagnato studiando, discutendo e lottando, soprattutto lottando.
Radiondarossa
Prima ti sei rivolto alle persone che stanno fuori dicendo che un percorso di liberazione per le compagne e i compagni detenuti può iniziare proprio a partire da coloro che sono liberi. Noi ci scontriamo quotidianamente con un’enorme difficoltà a portare avanti mobilitazioni sul carcere. Per il capodanno del 2000 avevamo lanciato l’idea di un appuntamento sotto il carcere di Regina Coeli, ma non si è riusciti a fare in modo che ciò si realizzasse. Più in generale l’attenzione nei confronti del carcere è molto scarsa. Se a parole ci si dichiara contro il carcere e per la libertà delle compagne e dei compagni, poi nella pratica queste rimangono parole d’ordine prive di un contenuto. Non credo sia sufficiente individuare parole d’ordine semplici, come dicevi tu prima. Occorrerebbe individuare le vie attuali per una mobilitazione ed una elaborazione sul carcere. E’ un’illusione credere che si possano ripresentare, fuori e dentro, le condizioni che tu hai vissuto e di cui parli nei tuoi libri, quando spesso i cortei sfilavano sotto il carcere e vi era un’attenzione e una solidarietà reciproca tra le lotte interne ed esterne.
Per quanto riguarda il dentro hai ricordato l’esempio di Martino Zichitella sottolineando come sia sempre più difficile incontrare in carcere figure di questo tipo. Si parlava del carcere di oggi e della legge Gozzini. Tra i suoi effetti principali c’è stato un processo di individualizzazione della popolazione detenuta che ha ostacolato le espressioni collettive e rivendicative. Dicevi delle leccate di culo e della passività assoluta cui si è costretti in carcere per fingere di seguire il trattamento rieducativo. Le misure alternative sono un percorso minato in cui vige la massima arbitrarietà da parte delle varie figure con cui chi è detenuto deve avere a che fare: dalla magistratura ordinaria a quella di sorveglianza, dalle guardie alla direzione, dagli educatori all’assistenza sociale, dal datore di lavoro alla comunità terapeutica, chiunque può impedire l’uscita dal carcere e scaricare la responsabilità su un altro anello della catena. Alla persona detenuta è chiesto un atteggiamento totalmente passivo di fronte a questi arbitrii, nella speranza di ottenere, come premio riservato a pochi, la tanto sospirata libertà. Da questo punto di vista, nella sua impostazione così fortemente premiale, la Gozzini ha funzionato bene ed è riuscita a far cessare, o comunque a ridurre notevolmente, qualsiasi esperienza collettiva tra la popolazione detenuta.
Partendo da questi due aspetti che riguardano il fuori e il dentro quali possono essere secondo te percorsi, idee che riescano a superare le attuali difficoltà?
Sante
Chiunque abbia frequentato il carcere sa che bastano pochi mesi perché le situazioni cambino.
Io sono fuori dal carcere in pratica da 11 anni e so, leggo ma soprattutto immagino il cambiamento forte che c’è stato. Si tenga conto poi che già all’epoca il carcere per noi politici era assai diverso dal carcere per gli altri detenuti. Dall’apertura delle carceri speciali nel 1977 noi prigionieri politici e alcune figure “autorevoli” della malavita eravamo isolati tra di noi. Quindi in realtà la mia vicenda viva con il carcere finisce nel 1977. Per questo mi è difficile capire bene la realtà dentro.
Nonostante ciò leggo e seguo ciò che accade. Nel 1998 era anche nata qualche speranziella: un governo di sinistra, il guardasigilli addirittura proveniente dal partito comunista… e invece, ma non paradossalmente perché l’esperienza mi insegna che è stato così anche in passato, questi ti fanno rimpiangere i democristiani. A partire dalla strage di Alessandria del 1974 in cui vennero uccisi 7 detenuti, un episodio ormai dimenticato e proseguendo con le altre vittime che ci furono ovunque tra le lotte carcerarie di quegli anni, quando la sinistra ha occupato posizioni di governo si è avuta la repressione più dura. Nel 1974 era diventato ministro per la prima volta in Italia un socialista: Zagari e ci fu la strage di Alessandria. I democristiani erano sicuramente più mediatori o avevano una pratica di potere grazie alla quale riuscivano in qualche modo a ricomporre le contraddizioni.
Oggi la sinistra al governo per guadagnare consenso e dimostrare che è capace a fare il boia ha fatto sì che la situazione nelle carceri sia peggiorata da quando c’è questo signore (il ministro Diliberto). Guarda alla vicenda del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Prima era stato messo Margara che per ogni detenuto era un riferimento di apertura, un mito nelle carceri, inutile negarlo. Ha fatto un’esperienza brevissima, l’hanno subito tolto di mezzo ed è arrivato il signor Caselli. Eh sì Caselli…
Ci è capitato qualche volta durante assemblee e incontri di sollevare il problema del 41bis e ci siamo sentiti dire dai compagni, quasi con fastidio, “roba di mafiosi”, ecc… Lì capivamo che c’era una grossa incomprensione rispetto al carcere. Perché tu come compagno devi anche essere capace a un certo momento, avere il coraggio di assumerti le tue responsabilità e difendere lo stato di detenzione di Totò Riina. Devi averlo questo coraggio perché le condizioni di detenzione che hanno creato per queste persone all’Asinara prima, e ancora oggi in altre supercarceri, vere pietre tombali, sono persino più feroci di quelle cui eravamo sottoposti noi con l’articolo 90. Il silenzio su questi temi lo stiamo ancora pagando. Perché lì hanno torturato, maltrattato, sono riusciti a far pentire fior di mafiosi che io alcuni li conoscevo: con tanto di pelo così ed una scorza dura… e trovarmeli pentiti è una cosa che non mi sono mai spiegato, se non ammettendo una realtà carceraria che va al di là di quello che dovrebbe esistere in un paese civile. Questo silenzio è stato molto pesante e non ha prodotto indignazione. Perché io credo che nel momento in cui tu vieni arrestato, qualunque reato tu abbia fatto, in quel momento lì sei nelle mani dello stato e lo stato ti deve determinate garanzie. Invece lì le hanno fatte crollare tutte.
Mi chiedevi prima da dove partire. Francamente per i motivi che ti ho detto io non lo so. Sono molto scettico: tentativi ce ne sono stati ma non si è riusciti a mettere su qualcosa che avesse una certa continuità e dignità, anche partendo dalla prigionia politica. Prima parlavi della mancata iniziativa a Regina Coeli, ma chiediamoci quanti dei nostri ragazzi, di noi stessi a capodanno, in tutta questa euforia per il 2000, quanti hanno scritto una cartolina a un prigioniero? Quanti hanno mandato un libro? Io penso che siano stati rarissimi questi casi.
E’ molto amaro ma ve lo devo dire: mi sono sempre chiesto se questo movimento ha sentito suoi quei prigionieri lì, parte della propria storia e dei propri percorsi. Io ho qualche dubbio in merito. Ho qualche dubbio perché non c’è iniziativa, neanche da parte degli esuli, alcuni dei quali sono attivi politicamente.
Qui siamo in via dei volsci, un mito, era l’anima della rivoluzione, l’anima del movimento. Io quando ero in galera e vedevo in TV gli scontri che partivano da qui, sentivo un impulso, un’indignazione, una voglia di lottare, di cambiare. Per me era una forza prorompente, mi sarei fatto altri cinquant’anni di galera, non me ne fregava assolutamente niente. Perché sapevo che i compagni combattevano, i compagni lottavano, i compagni si organizzavano.
Per questo a quei tempi qualunque questione era collettiva. Ecco, bisogna ripristinare un pochino di poesia collettiva. Creare intorno alle compagne e ai compagni qualcosa che faccia sentire una persona che oggi ha vent’anni parte di quella storia e parte della storia che deve ancora percorrere.
Compagno ex-Snia
Volevo riprendere il discorso di Sante laddove parla di indignazione. Non c’è più indignazione per coloro che stanno in galera, torturati giorno e notte, non c’è più indignazione per gli operai uccisi, non c’è più indignazione per le persone mangiate dai pescecani nel canale d’Otranto, non c’è più indignazione ormai per nulla, se non in piccole sacche della società. E’ lo stessa parola che si è svuotata: sembra che il termine indignazione non faccia più parte del vocabolario di questa società. Le rivoluzioni mediatiche, la frantumazione sociale hanno prodotto questa profonda mutazione della capacità di indignarsi.
Proprio per questo abbiamo organizzato l’iniziativa di quest’oggi all’ex-Snia Viscosa e l’abbiamo chiamata “Ricominciamo da Sante”. Perché Sante per noi rappresenta la poesia di quel movimento e la poesia è di tutti, non di una parte o dell’altra.
E’ importante impostare il discorso sul legame tra le generazioni. Solo così è possibile recuperare quell’indignazione che manca. Si deve stabilire una comunicazione tra generazioni che attualmente è deficitaria da entrambe le parti. L’una non è stata capace di comunicare e trasmettere un’esperienza all’altra, mentre l’altra è rimasta chiusa nella sua piccola storia.
L’iniziativa di stasera è incentrata sull’amnistia, perché è una parola forte e riassume un filo ideale tra le generazioni. Ci rendiamo conto che oggi il problema non è di mandare il seghetto in galera perché ciò è ridicolo anche solo a pensarlo; ci rendiamo conto che il problema dei compagni in galera non può essere risolto, da un punto di vista tecnico-pratico, domani o dopodomani; l’unica soluzione sta nel riallacciare questo filo tra generazioni. La trasmissione di un’esperienza di libertà può essere proprio l’embrione per qualcosa di nuovo. L’amnistia di cui parliamo non appartiene né a un pezzo di movimento né a un pezzo di organizzazione, ma ad un’intera generazione che ha lottato negli anni 70 e 80 e che sicuramente era figlia di quel grande movimento comunista nato nel secolo passato. Da parte di quella generazione, che poi è anche la mia, c’è stata un’incapacità di riflettere sulle proprie storie e non è possibile pensare al presente e al futuro senza aver consumato una riflessione accurata sulla propria storia che è fatta di cose pregevoli e anche di grossi errori.
La mia domanda a Sante è la seguente: spesso si è affermato che una seria riflessione sull’esperienza della lotta armata non è possibile fino a che sono rinchiusi nelle galere italiane i prigionieri politici. Dall’altro lato si è affermato che per parlare di amnistia bisogna riflettere sugli anni 70. C’è un vizio di forma, qualcosa che stride, una condizione che ci vede incapaci di una trasmissione ricca, un cane che si morde la coda. E’ possibile secondo te riuscire a stare tra di noi? Tranquillamente come stasera, attorno a un tavolo?
Sante
Questa domanda mi viene posta sempre. Ma vi immaginate voi un compagno come Prospero che con tutti i suoi by-pass, con tutte le sue cose, con grande preoccupazione nostra… Prospero è stato uno di quelli che non si è risparmiato, sebbene le sue condizioni fisiche fossero tali che da un momento all’altro ci poteva lasciare le penne. Non si è risparmiato, ha fatto tutti i centri sociali d’Italia, non ne ha trascurato nessuno, andava lì dove c’erano dieci ragazzi e lì dove erano più organizzati. Anche altri compagni hanno fatto questo tipo di sforzo; sono stati scritti dei libri, dei documenti. Nessuno di noi si è sottratto alle richieste, compatibilmente con i propri impegni.
Il problema è che quella storia lì non la puoi risolvere in maniera individuale. Quella è stata una grande storia collettiva. Si parla di lotta armata, ma si dovrebbe parlare di un movimento rivoluzionario nel suo insieme di cui la lotta armata è stata solo una parte, forse neanche la più importante. La lotta armata fu, se vuoi, la parte più eclatante: per Moro e tutte le seghe varie, per l’immaginario collettivo, chi si sentiva esaltato, chi depresso … Però il problema era molto più vasto, molto più ampio: erano le migliaia e migliaia di compagni, le femministe, i lavoratori, le fabbriche, le scuole, l’università… si trattava di decine di migliaia di compagni, di giovani.
Io ricordo sempre il bellissimo libro di Primo Moroni che è veramente uno spaccato del movimento, stupendo, molto ricco. Quello era il libro del movimento. Si sarebbe dovuto fare il libro anche dell’altra parte… e invece non è stato possibile discuterne collettivamente.
Ci sono state delle difficoltà di diversa natura. Culturali innanzitutto: io per esempio sono un proletario, io ho fatto la prima media, non mi sono mai ritenuto un accidenti di niente, ho dei limiti abissali, cerco di sforzarmi di capire. La mia scuola è stato il carcere. Non è che io abbia avuto altre possibilità. In un certo senso sono veramente l’ultima ruota del carro. Nonostante ciò mi rendo conto che a un certo punto io, da proletario, ho dovuto sostituire i grandi leader, i capi, i presidenti futuri che hanno preferito andare a prendersela nel culo, invece che svolgere fino in fondo il loro ruolo, soprattutto in una situazione difficile come era quella in cui ci siamo trovati. Alcuni addirittura sono passati dall’altra parte. Questo è il dramma. Un compagno una volta mi disse che le rivoluzioni -i tentativi rivoluzionari- finiscono o sotto terra, come è stato in Argentina, in Cile, ecc. oppure coperte dalla merda. A noi purtroppo la merda ci è arrivata fino a un buon punto, siamo un po’ asfissiati.
Ma l’impossibilità di stabilire una comunicazione non deriva solo da una parte. Anche se guardiamo dall’altra parte …Il bilancio deve essere complessivo. Non c’è nessuno che può cantare vittoria o avere l’atteggiamento stronzo di dire “l’avevo detto io …”. Queste cose purtroppo ci sono qualche volta, ma a me non interessano. Tante volte ho risposto a chi mi chiedeva conto, ma io l’ho raccontata talmente tante volte che adesso a qualcuno vorrei dire: “fammi la cortesia, raccontami tu la tua storia, io mi siedo dall’altra parte del tavolo e voglio sentire la tua storia, le tue valutazioni, le tue cose”. Mi rendo conto che ci sono molte punte polemiche in ciò che ho detto… però rimane che un tavolo comune non è stato possibile costruirlo. Nessuno con le sue responsabilità, il suo percorso, la sua formazione ha sviluppato qualcosa da poter dare ad Alice, una compagna che ha vent’anni ed è qui con noi negli studi. Poterle dire: “guarda, io sono arrivato fin qua, adesso me ne vado in pensione, sono cazzi tuoi, vai avanti tu”. Avrei voluto partecipare a un’esperienza di questo tipo, anche se non ci avrei messo una lira, però non è stato possibile farlo.
Ci sono stati alcuni che hanno provato a farlo individualmente, con il rischio, però di essere smentiti in qualsiasi momento da uno che si alza e dice: “parla per te”. Anche quando è stato fatto in modo serio, mi riferisco al libro di Moretti con la Rossanda, si è visto il tipo di difficoltà a raccontare una storia simile: un compagno è finito in galera dopo vent’anni!
La discussione va svincolata, esplicitata politicamente senza vincoli con le varie inchieste sempre aperte, perché giudici che non hanno un cazzo da fare e inseguono quattro titoli sui giornali ce n’è tanti. Questo è sicuramente un impedimento, ma credo che ormai non ci siano più le basi politiche, le figure più responsabili. Semplicemente perché stanno facendo altro. Nonostante tutto per un giovane di vent’anni che è interessato è possibile trovare i momenti di confronto: guardate i libri che ci sono nelle vostre case, ci sono i racconti, ci sono ancora le persone.
Radiondarossa
Dicevi prima che sei portato a fare la considerazione amara che questo movimento non sente come suoi i prigionieri politici in carcere o in esilio. Accennavi anche ai settarismi e alle divisioni che ci sono state. Su questo forse c’è stata poca chiarezza: si è confuso il sentirsi propri i prigionieri con il difendere la propria parte, o addirittura ci si è inseriti nelle spaccature per individuare una propria fazione cui far riferimento. Da questo punto di vista credo invece che una campagna di libertà come quella di cui stiamo discutendo, che può partire anche da semplici segnali di attenzione o sensibilità, debba saper andare al di là delle divisioni passate e presenti.
Sante
Le questioni del movimento, i diversi settori del movimento, le linee diverse sono una cosa che non mi appartiene. La discriminante per noi è una sola: la dissociazione. Per noi è stata una delle infamie più grosse, ha distrutto il movimento al punto che oggi un ventenne non scrive nemmeno una cartolina dentro. La dissociazione ha frantumato e distrutto la solidarietà, il minimo su cui gli esseri umani si incontrano, il minimo su cui nascono le idee, la politica, l’aggregazione. Questo va sempre ribadito con molta forza: la dissociazione è stata responsabile di ciò.
Fatto salvo ciò le altre divisioni non hanno senso. E’ come se io adesso mi mettessi a polemizzare con Prima Linea, oggi che nessuno sa neppure che c’è stata un’organizzazione, abbastanza grossa e potente, come Prima Linea. Oppure mi soffermassi sulle posizioni all’interno delle Brigate Rosse, della brigata Walter Alasia di Milano, o via discorrendo. Sono questioni da lasciare agli studiosi, ma che oggi non hanno più senso.
Alcuni settori del movimento non hanno inteso fino in fondo questa cosa. Ciò ha creato irrigidimenti anche lì dove determinati progetti stavano più o meno marciando, con fatica, ma con molta chiarezza. Io sono disponibile a lavorare con tutti. Io ci parlo e amo alcuni compagni di rifondazione. Quando vengono al mio pub, a volte ci può essere un po’ di freddezza, ma su delle cose, su un problema come la guerra ad esempio, non è possibile dividersi. Vi sono delle cose su cui i comunisti, le persone coscienti, gli indignati si ritrovano e lavorano insieme, tranquillamente, pacificamente, per realizzare qualcosa. Ciò non è stato possibile sul tema della prigionia.
Vi porto un esempio della mancata comunicazione con il movimento. Avete presente quelli che vennero bollati da alcune organizzazioni come i “professorini”? che sono poi gli stilatori del famosissimo documento di fondazione della dissociazione, a disposizione di chiunque volesse leggerlo. Uno dei professorini è venuto a Bologna ed io mi sento una compagna che mi dice: “sarà dissociato, come dici tu, però cazzo parlava bene! Ha parlato per due ore in maniera affascinante…” Io le ho risposto: “guarda che quello ha parlato nove ore col giudice e anche il giudice era affascinato!” Si crea confusione su queste cose qui. Io sono molto rigido sull’identità e sulle posizioni ferme rispetto alle porcherie, dopodiché possiamo discutere di tutto, possiamo anche litigare.
Compagno ex-Snia
Sono d’accordo con te quando dici che la dissociazione è stato l’elemento più deprecabile e dirompente intorno a quella che è stata la nostra esperienza. Pentiti ed infami nella storia ci sono sempre stati, persone che si vendono totalmente. La dissociazione invece è una vendita dell’identità, di una parte di te ed un’accettazione dell’esistente: rinnegare per legge qualcosa che è parte di noi stessi. La dissociazione nasce negli anni 80, subito dopo i grandi arresti dal 1981 al 1984. E’ necessario centrare l’attenzione proprio su quegli anni, sul declino provocato dalla dissociazione. Nasceva in quegli anni il settarismo politico e si viveva in galera, più che fuori, un clima terribile. Alcuni compagni avevano intuito che qualcosa si stava rompendo e bisognava fermarsi, ma queste idee non hanno preso strada. Fino alla fine degli anni 80 si è continuato a riprodurre un modello che ormai era fuori da quelle che erano le condizioni di quel periodo. Tant’è che negli anni 80 nascono i primi centri sociali, che rappresentarono una rottura di forma e di sostanza, di interpretazione stessa della politica rispetto alla generazione precedente.
La fine di un’esperienza è come la fine di un amore: può finire a cazzotti o con dirsi “t’amerò lo stesso”. La fine fotografa la ricchezza di quello che c’è stato. La nostra fine non è stata delle più gloriose. Secondo te i primi calcinacci del muro di Berlino non sono cascati per quanto ci riguarda proprio in quegli anni? Per cui è necessario tornare a riflettere su quegli anni?!
Sante
Ogni tanto quando incontro qualche vecchio compagno ci viene da dire “pensa che sfiga se noi avessimo vinto! perlomeno lì sono resistiti cinquant’anni, noi nel giro di quattro mesi…”. A parte gli scherzi io credo che quel movimento abbia dato tutto quello che poteva dare, e anche di più, in senso rivoluzionario. Quel movimento lì ha fatto molto, ha cambiato la società italiana. In bene o in male non lo sappiamo ancora, però le spallate che quel movimento ha dato ad una situazione ferma, incancrenita, tutta democristiana ecc. ecc. li fanno piangere ancora adesso.
Il problema che ci compete è chiedersi perché non ci sia stato uno sviluppo ulteriore. Io sono arrivato a pensare che il difetto non fosse nella volontà dei compagni o nella loro capacità, ma semplicemente nel fatto che le basi teoriche erano un po’ vecchiotte. Nelle celle dei compagni detenuti, i PP come li chiamavamo, trovavi sempre gli stessi libri: le opere di Marx, Lenin, ecc. Andavano bene per comprendere quel passaggio lì, ma erano assolutamente insufficienti, secondo me, per andare oltre e quindi usare meglio quel movimento rivoluzionario.
In galera a volte si creava una situazione anche un po’ comica. Io ero il vecchio rapinatore e con il detenuto “comune”, il ragazzotto sveglio, riuscivo a stabilire un rapporto privilegiato. Lui magari era intimidito a parlare con gli altri, con il grande leader che compariva tutti i giorni sul giornale e parlava difficile senza che lui capisse una sega. Lui diceva di aver capito e poi veniva da me a chiedermi spiegazioni che neanche io ero in grado di fornire. Quando individuavi una persona sveglia, la prima cosa che facevi era di mollargli i libri di lettura, i libri di storia, i libri dei militanti… dopodiché faceva un saltino di qualità e tu gli davi il “che fare” e cominciavi con le discussioni all’aria, ecc. e poi si andava oltre. In carcere abbiamo formato dei quadri rivoluzionari, sto parlando di delinquenti, gente che aveva poca formazione di base. Quelli sono diventati tanto così di dirigenti rivoluzionari.
Se adesso mi trovassi in una situazione di quel genere, in carcere così come fuori, mi chiederei da dove cominciare? Avrei molte difficoltà a passare i libri dell’epoca: il manifesto del partito comunista, ad esempio, che era la base minima.
Allo stesso tempo, però, diamo un po’ di speranza, altrimenti qui ci piangiamo addosso. Questa situazione è anche carina, bella. Se non serve quel libro lì, non me ne frega niente, si tratta di scrivere un altro libro. Chi è che lo scrive ‘sto cazzo di libro? Come facciamo a scrivere il nuovo manifesto del nuovo o futuro partito rivoluzionario? Bisogna mettersi lì e penso che lo faranno loro che hanno vent’anni oggi. Loro devono ripartire, devono conoscere la storia.
E’ importante che il meccanismo di comunicazione tra me e un ventenne non sia più lo stesso: devo essere io ad arrancare, è giusto che io arranchi dietro a lui.
Come all’epoca un quadro serio sindacale della Mirafiori non era neanche da paragonare a un D’Alema, per non parlare degli altri; così deve diventare oggi. Qualunque compagno che ha fatto il rivoluzionario in quegli anni aveva uno spessore, una morale, una dignità abissali. Così oggi ci sono le possibilità per andare oltre, secondo me ci sono tutte le condizioni… Bisogna che scrivano un libro.
Radiondarossa
Terminiamo con questa nota d’ottimismo. Ringraziamo dell’attenzione tutte le persone all’ascolto e salutiamo chi è privato o privata della propria libertà personale. Per chi sta fuori speriamo che questa chiacchierata con Sante Notarnicola possa servire da stimolo non solo per scrivere qualche cartolina, ma anche mandare libri e comunicare con dentro il carcere. A chi sta dentro fa sempre piacere e sarebbe importante, anche per noi che stiamo fuori, riconquistare il piacere di farlo.
Sante
Rinnovo i saluti per tutti, saluto i compagni prigionieri, tutti i detenuti, tutti i dannati, tutti i compagni e le compagne che conosco direttamente o indirettamente. Ciao a tutti.